Partite Iva, cosa cambia con la riforma del lavoro

Partite Iva, cosa cambia con la riforma del lavoro

Nelle intenzioni del legislatore, l’intervento normativo ha la finalità di contrastare l’utilizzo di finte collaborazioni autonome.

Tra le diverse novità introdotte dalla riforma del mercato del lavoro assume particolare rilievo la nuova disciplina delle collaborazioni professionali con titolarità di partita Iva contenuta nella legge n. 92/2012. L’intervento riformatore avrebbe, almeno nelle intenzioni del legislatore, la finalità di contrastare l’utilizzo di finte collaborazioni autonome che di fatto dissimulano l’esistenza di rapporti di lavoro subordinato ovvero forme di collaborazioni ascrivibili alla parasubordinazione. L’obiettivo sarebbe quello di fornire strumenti di protezione a quei lavoratori che ancorché formalmente autonomi si trovano in una situazione di dipendenza economica, derivante da un regime di mono-committenza. Obiettivo, questo, meritevole che verrebbe, però, perseguito attraverso una tecnica (delle presunzioni legali) assai discutibile, in cui tutto è ricondotto al lavoro subordinato, passando, prima, dalla collaborazione a progetto. In tal modo al lavoratore non verrebbero apprestate forme di tutela <<nel>> lavoro autonomo, ma <<dal>> lavoro autonomo sulla base di un duplice assunto: che la collaborazione coordinata e continuativa a progetto sia, in ogni caso, preferibile al lavoro cambia con la riforma del lavoro autonomo tout-court, qual è quello delle partite Iva; che qualunque forma di lavoro che si discosta da quella tipica, standard, sia in re ipso pregiudizievole per il lavoratore. D’altronde ciò risponde alla filosofia di un impianto legislativo permeato dall’enfasi del contratto dominante, che assegna un ruolo prioritario al lavoro subordinato a tempo indeterminato quale forma comune di rapporto di lavoro. Passando in rassegna la nuova disciplina di riferimento, emerge una presunzione di legge in base alla quale le prestazioni lavorative svolte da persona titolare di partita Iva sono considerate come rapporti di collaborazione coordinata e continuativa in presenza di almeno due dei tre indicatori espressamente previsti dal testo normativo. Si tratta di tre indici che, in sostanza, se combinati tra loro, fanno presumere l’esistenza di un rapporto di etero-coordinazione tra il committente e il prestatore di lavoro, salvo che il primo non fornisca prova contraria (presunzione relativa) dell’instaurazione di un valido e genuino rapporto di lavoro autonomo. La novella ha ampliato l’arco temporale di riferimento a due anni solari consecutivi, attenuando in parte il precedente rigore. Con riferimento ai tre indicatori occorre fare alcune precisazioni. Anzitutto, la durata complessiva del rapporto, che comprendere anche eventuali proroghe o rinnovi dello stesso, dovrà calcolarsi nell’arco di due anni solari consecutivi, da intendersi come anno civile, vale a dire dal 1° gennaio al 31 dicembre. Riguardo, invece, al corrispettivo dovrà farsi riferimento a quello effettivamente percepito e quindi corrisposto al lavoratore, nello stesso arco temporale, direttamente dal committente ovvero da più soggetti, comunque riconducibili al medesimo centro di imputazione di interessi. Per valutare la sussistenza di tale condizione, il committente potrà richiedere al collaboratore un’attestazione scritta, che quest’ultimo sarà obbligato a fornire prima dello svolgimento del rapporto. Quanto, infine, al terzo requisito, è necessario che il collaboratore disponga stabilmente di una postazione di lavoro, anche se non in via esclusiva, presso una delle sedi del committente.

Fonte: Italia Oggi