La Fed fa risalire il petrolio, ma si preparano nuovi ribassi

petrolio-barili-marka--258x258La Federal Reserve ha rimescolato le carte in tavola, innescando una reazione violenta anche sui mercati petroliferi. Dopo il comunicato della banca centrale americana, le quotazioni del barile hanno virato con decisione al rialzo: il Wti – che nel corso della giornata era sceso fino a 42,03 dollari, il minimo da sei anni – è riuscito a chiudere in progresso del 2,8%, a 44,66 dollari. Ancora più spettacolare è stato il rimbalzo del Brent: +4,5% a 55,91 $/barile.

Pur abbandonando la parola «paziente» in riferimento al rialzo dei tassi di interesse, la Fed si è dimostrata molto più prudente di quanto ci si aspettasse: la prospettiva che il costo del denaro negli Usa possa aumentare già da giugno si è allontanata e il dollaro ha ceduto terreno, favorendo viceversa un rimbalzo delle materie prime. Si tratta di un comportamento piuttosto tipico, visto che queste sono quotate nella divisa americana. Ma è difficile pensare che la Fed sia riuscita a risollevare davvero le sorti del petrolio. Al contrario. Tutto lascia pensare che il prezzo del barile scenderà ancora, con ribassi che secondo uno studio appena pubblicato dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) potrebbero risultare amplificati dal comportamento delle compagnie petrolifere, oggi diverso da un tempo a causa della montagna di debiti che il settore ha accumulato: ben 2.500 miliardi di dollari nel 2014 a livello globale, contro i mille miliardi stimati per il 2006. Una quantità che spinge la Bri – prima tra le istituzioni internazionali – a parlare addirittura della possibilità di «rischi sistemici» per l’economia mondiale.

Dopo una fase di recupero in febbraio, il prezzo del barile ha ricominciato a scendere con decisione nelle ultime settimane, con le vendite che si sono accanite soprattutto sul Wti: il riferimento americano ha perso circa il 15% questo mese, di riflesso alle condizioni estremamente deboli del mercato negli Stati Uniti. L’allarme sulle scorte in particolare è tornato in primo piano: con la produzione di shale oil che ancora non ha rallentato il passo – e con il divieto di esportare greggio tuttora in vigore – milioni di barili si stanno accumulando nei serbatoi di stoccaggio, che ora sono talmente pieni da temere che possano traboccare. Una volta esaurito lo spazio, il petrolio dovrà essere svenduto. Oppure stoccato (a un costo più elevato) a bordo di petroliere. In entrambi i casi il prezzo sembra condannato a scendere.

Proprio ieri è arrivata la conferma che le giacenze sono salite per la decima settimana consecutiva, portando le scorte commerciali negli Usa a 458,51 milioni di barili (+9,6 mb), un livello che non si raggiungeva dagli anni ’30. A Cushing, il punto di consegna del Wti, sono arrivati altri 2,9 mb e si è saliti al record assoluto di 54,4 mb, pari a circa il 70% della capacità dei serbatoi (che per motivi tecnici non dovrebbe essere sfruttata oltre l’80%). Stimare quanto spazio resti ancora negli stoccaggi americani non è facile: le cifre che circolano sono discordanti, ma diversi analisti temono che si possa arrivare al “sold out” verso aprile-maggio. A meno che l’estrazione di greggio negli Usa non inizi finalmente a calare.

Se finora non l’ha fatto, suggerisce la Bri, potrebbe dipendere anche dal fatto che i produttori hanno bisogno di estrarre a qualunque condizione, per pagare gli interessi sui debiti. Altre pressioni sul prezzo del barile sarebbero generate da un’attività di hedging più intensa rispetto al passato. Il superindebitamento del settore non solo rinvia la reazione del mercato all’eccesso di petrolio. Ma comporta rischi per tutta l’economia: «La rapida crescita della leva – osserva la Bri – crea per le aziende un’esposizione al rischio che può trasmettersi al sistema finanziario globale».

Fonte : Il SOoe 24 Ore