Petrolio sotto i 41 dollari al barile

downloadDopo che il dipartimento all’Energia americano ha pubblicato i dati sulle scorte settimanali, il petrolio accelera i ribassi al Nymex, arrivando a perdere più del 2% e scivolando sotto i 41 dollari al barile. Gli stock di petrolio, tenuti sotto stretta osservatore dai mercati delle materie prime, sono aumentati di misura, ma gli analisti attendevano un dato in calo.
I future del Wti con scadenza a dicembre, subito dopo la pubblicazione del dato, erano scambiati a 40,84 dollari al barile, in calo del 2,2%, mentre prima del dato era scambiato in ribasso più modesto a 41,26 dollari (ieri aveva chiuso a 41,85 dollari). Al momento il contratto lima leggermente le perdite ed è scambiato a 40,95 dollari, in ribasso del 2,15%. Venerdì è in calendario a Vienna la riunione dell’Opec che dovrà affrontare il tema dell’accumulo delle scorte e del mancato rispetto dei limiti di produzione

I gestori si allontanano dagli emergenti

downloadIl sentiment dei gestori sui mercati emergenti diventa negativo. E’ questa la principale novità dell’ultimo sondaggio condotto da Morningstar, all’inizio di novembre, tra le principali case di investimento che operano in Italia. Restano positive, invece, le previsioni sull’andamento delle Borse europee nei prossimi sei mesi.

Nel complesso, il Morningstar Italy Investment Sentiment index (MIISI), costruito sulla base delle probabilità attribuite a diversi scenari (mercati in salita, stabili o in discesa), su un orizzonte di sei mesi, mostra la preferenza dei gestori per le azioni dei paesi sviluppati, mentre c’è cautela sul segmento del reddito fisso.

Eurolandia resta la preferita
A novembre, l’indice MIISI sulle Borse del Vecchio continente è invariato intorno ai 68 punti. I gestori studiano i dati macro, nella speranza di avere conferme sulla ripresa. I segnali sono contrastanti: da un lato le economie rimaste finora indietro, come l’Italia e la Francia, sembrano risvegliarsi; dall’altra la Germania mostra affaticamento. Tuttavia, molti money manager considerano le asset class rischiose europee un’alternativa al calo dei rendimenti offerti dai titoli governativi e quindi le sovrappesano nei loro portafogli.

Wall Street non è a sconto
Dopo il balzo di ottobre a 63,16 punti, l’indice MIISI sulla Borsa americana è tornato verso uno scenario neutrale (54,33 punti). La stagione delle trimestrali volge al termine e il 75% delle imprese ha superato le attese sugli utili, ma una su due ha deluso sui ricavi. Per questa ragione sono state riviste al ribasso le stime per gli ultimi tre mesi dell’anno.  Le valutazioni appaiono dunque tirate, in considerazione anche del recupero dei corsi azionari.

Tokyo, sentiment invariato
Il MIISI sull’indice Nikkei 225 è rimasto praticamente invariato a novembre (64,4 punti). I gestori sono convinti che proseguiranno gli stimoli all’economia da parte della Bank of Japan, anche perché il rallentamento della Cina e della congiuntura globale rappresentano un ostacolo alla ripresa. Intanto, la seconda fase dell’Abenomics (piano governativo di rilancio) sta portando alla ripresa del credito. Le valutazioni dei titoli sono considerate interessanti, relativamente agli altri mercati sviluppati.

Lontano dagli emergenti
I mercati in via di sviluppo sono l’area dove si registra il maggiore cambiamento nel sentiment dei gestori. L’indice MIISI scende a 49 punti, sotto il livello considerato di neutralità. L’attenzione è rivolta soprattutto alla Cina, dove, secondo i dati ufficiali, la crescita nel terzo trimestre è stata del 6,9%, in calo rispetto alla prima metà dell’anno. I mercati studiano, in particolare, le mosse della banca centrale e del governo per evitare un atterraggio “duro” della congiuntura (cosiddetto hard landing). Per quanto riguarda gli altri paesi emergenti, quelli più sofferenti sono il Brasile e la Russia, mentre l’India mostra una dinamica più favorevole.

Verso il rialzo dei tassi Usa
Aumenta il numero di gestori che prevede un rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve a dicembre, dopo i buoni dati macro delle ultime settimane, in particolare sul fronte dell’occupazione americana. A ottobre, il tasso dei senza-lavoro è sceso al 5% e la paga oraria è salita del 2,5% rispetto a un anno fa, il più alto incremento da luglio 2009. In questo scenario, il MIISI sui prezzi dei titoli governativi statunitensi si è attestato a 45,33 punti, lo stesso livello dell’indice di sentiment sui Bund tedeschi. A novembre, è rimasta invariata intorno a 47 punti la previsione per il BTp italiano. Le emissioni periferiche dovrebbero continuare a beneficiare del programma di espansione monetaria da parte della Banca centrale europea.

Dollaro più forte
A novembre, l’indice MIISI sul rapporto di cambio tra euro e dollaro è sceso a 37,67 punti (40,39 a ottobre). Come si legge in una nota di Exane Derivatives, la Fed ha temporeggiato a settembre per evitare che l’avvio di una stretta monetaria creasse eccessiva volatilità sui mercati valutari. Tuttavia, l’istituto centrale americano sembra ora pronto a intervenire e dovrà lasciare spazio a un apprezzamento del biglietto verde per normalizzare il suo bilancio e avere margini di manovra anticiclici sulla sua politica monetaria. Il dollaro, dunque, è destinato a diventare ancora più forte sull’euro.

MIISI - novembre 2015

Hanno partecipato al sondaggio, condotto tra il 3 e il 10 novembre, 15 gestori e strategist delle principali case di gestione e intermediazione operanti sul territorio. I partecipanti appartengono alle seguenti società:, Aletti Gestielle, Amundi Sgr, BNP Paribas IP, BNY Mellon, CFO sim, Columbia Threadneedle Investments, Decalia AM, Ersel AM, Ethenea Indipendent Investors, Exane Derivatives, FIA AM, Investitori Sgr, La Francaise, M&G Investments, MoneyFarm Sim, Syz AM.

Morningstar Italy Investment Sentiment Index (MIISI)
Il Morningstar Italy Investment Sentiment Index (MIISI) è un indice di sentiment elaborato dal team locale di analisti di Morningstar. È basato su un questionario inviato ogni mese alle principali case di gestione e intermediazione italiane ed estere alle quali viene chiesta una previsione a sei mesi sui principali mercati azionari, obbligazionari e valutari. In particolare, gli intervistati devono esprimere il loro livello di confidenza rispetto a tre scenari di mercato (in crescita, stabile e in discesa). I risultati vengono aggregati al fine della costituzione dell’indice. I segmenti sono dieci: mercati azionari europei, italiano, statunitense, giapponese e emergenti; titoli di stato decennali tedesco, statunitense, italiano e debito emergenti; cambio euro/dollaro. Per ciascun segmento il valore massimo è 100 (certezza della crescita del mercato) e il valore minimo è 0 (certezza del ribasso). La base è 50, che indica una posizione neutrale o di mercato stabile. 

Fonte : MorningStar

Borse, ecco chi rischia di pagare di più l’effetto sindrome cinese

downloadIl terremoto borsistico scatenato dalle possibili ricadute dopo la svalutazione dello yuan cinese ha contagiato tutti i listini asiatici. Un segnale tangibile ieri lo si è avuto con la Borsa di Tokyo che ha lasciato sul terreno il 2,98%, scendendo abbondantememente sotto i 20mila punti ai minimi degli ultimi tre mesi e mezzo. Ancora pesanti Shanghai e Hong Kong. A oltre due mesi dall’inizio del crollo della Borsa cinese le vendite non sembrano arrestarsi. La volatilità e il nervosismo sono ancora destinati a dominare la scena almeno fino a metà settembre, in attesa della riunione della Fed.

Il mercato era a conoscenza che il gigante asiatico stesse rallentando e ha interpretato questa svalutazione con un segnale di debolezza e la volontà di rilanciare la ripresa puntando sull’export. Molti analisti ritengono che questa chiave di lettura sia però eccessiva. «Probabilmente — spiega Hans Bevers, senior economist di Petercam — l’aggiustamento dello yuan dovrebbe essere visto principalmente nel contesto storico, politico ed economico cinese più ampio, piuttosto che come un tentativo dettato dal panico di dare una spinta alle esportazioni». Per altri esperti si tratta di un passaggio importante all’interno nel processo di riforme messo in campo da Pechino per una maggiore liberalizzazione in campo finanziario.

Detto questo, il mercato, come spesso capita, ha utilizzato questa notizia come espendiente per correggere: un circolo vizioso che ha contagiato le commodity (di cui la Cina è un grande consumatore) e l’azionario. È innegabile comunque che la crescita sta rallentando e ufficiosamente oggi il Pil viene visto in aumento tra il 5 e il 6%, piuttosto che del 7% “ufficiale”, mentre gli utili delle società cinesi non sono andati particolarmente bene.

Da inizio anno i principali listini asiatici hanno ancora un bilancio prevalenemente positivo sia in valuta locale che in euro. I rapporti prezzo/utili restano ancora mediamente attraenti, al di sotto delle valutazioni di Europa ed Usa. Si tratta di mercato in cui l’accesso avviene prevalentemente con fondi o Etf. Ma è tempo di tornare a scommettere su queste Borse?

«In termini di valutazioni — commenta Giovanni Buffa, gestore Asia Emergenti AcomeA Sgr — i mercati asiatici erano reduci da livelli abbastanza elevati di multipli. La correzione sta portando i listini su posizioni più interessanti anche se non sono ancora particolarmente economici. La crescita resta bassa e l’incremento degli utili, in nazioni come la Corea, non è stato brillante. Tra i mercati quello che riteniamo più economico è sicuramente Hong Kong, dove i prezzi hanno toccato livelli molto interessanti. Anche Shanghai ha corretto molto, ma non è così economico. In ottica di medio-lungo termine, si possono cominciare ad aprire posizioni sull’Asia anche se restano ancora incognite».

Una delle più importanti è cosa farà la Fed da settembre. Il 16 e 17 settembre è in programma il primo comitato di politica monetaria che dovrebbe aumentare i tassi (Fed Funds) dopo nove anni. Se dovesse iniziare un ciclo rialzista sui tassi l’impatto sarà rilevante sulle valute emergenti. La componente valutaria è determinante per gli investimenti in questi Paesi. Se fino a poco tempo fa la svalutazione dell’euro non l’aveva fatta percepire, ora inizia a sentirsi. Serve una grande selettività. Alcuni listini, come Hong Kong ad esempio, oggi hanno un bilancio positivo solo per il contributo valutario.

Previsioni infine più rassicuranti arrivano sul Giappone. «Restiamo positivi sulle prospettive del Giappone — conclude Buffa — anche se l’Abenomics non ha centrato tutti gli obiettivi, ad esempio l’inflazione non ha raggiunto i target. Però sono state introdotte importanti riforme sul versante della corporate governance e oggi la crescita degli utili societari non è merito solo dello yen deprezzato ma anche di alcune riforme». Giudizio overweight (sovrappesare) da Ubs, che ritiene l’andamento degli utili societari nipponici il migliore dell’area.

Fonte : Il Sole 24 Ore

 

La rivoluzione di Google, nasce la holding Alphabet

downloadNEW YORK – Google va alla rivoluzione. Il re dei motori di ricerca e della pubblicità su Internet ha fatto scattare una drammatica svolta manageriale e di organizzazione aziendale che dando i natali a una nuova grande holding quotata – Alphabet – tende a garantire chiarezza a investitori e azionisti, vecchi e nuovi, tenendo conto appieno della redditività del suo core business su Internet, al centro di un impero da 66 miliardi di dollari di fatturato globale annuale e oltre 40mila dipendenti.

Allo stesso tempo, però, garantirà spazio e autonomia adeguate alle molteplici avventure avviate dal gruppo sulla frontiera dell’innovazione, che si estendono ormai dalla longevità ai droni e le auto.
La nuova trasparenza combinata con la promessa di rinnovamento ha fatto centro a Wall Street. Il passaggio non sarà traumatico: i titoli delle sue due classi di azioni – A e B – si trasformeranno automaticamente e senza alterazioni di sostanza in titoli Alphabet. Anche i ticker, i simboli sotto i quali sono scambiati in Borsa, rimarranno invariati nonostante il cambio di nome della casa madre: Goog e Googl. Sul parterre del Nasdaq, detto fatto, le azioni hanno così subito guadagnato, salendo anche del 6% nel dopo mercato di lunedì e assestandosi ieri a un rialzo comunque ben superiore al 3%, a un soffio dalla soglia dei 690 dollari, per un titolo che da inizio anno era comunque già salito del 25 per cento (da ricordare che il 12 gennaio scorso il titolo era sceso ai minimi annuali di 490,91 dollari).

Forse Larry Page e Sergey Brin, i fondatori del colosso di Mountai View, non sono Warren Buffett quando si tratta di finanza. Ma di certo hanno adesso preso in prestito una pagina della sua dottrina: la loro nuova Berkshire Hathaway dell’hi-tech – Page aveva citato fin dallo scorso dicembre proprio la corazzata dell’Oracolo di Omaha quale modello per tenere le redini di aziende complesse – fin dal nome, Alphabet, vuole convogliare un messaggio determinato e convincente. «Ci è piaciuto perché è una collezione di lettere che rappresenta il linguaggio, cioè una delle più importanti innovazioni dell’umanità – ha spiegato Page, che di Alphabet diventerà amministratore delegato -. Ma ci piace anche perché significa Alpha-bet», vale a dire una scommessa (bet) su Alpha (un rendimento dell’investimento superiore agli indicatori di riferimento). È qualcosa, ha aggiunto, «per cui ci battiamo».

Ancora: «Abbiamo sempre creduto che nel tempo le società tendano a sentirsi a proprio agio facendo le stesse cose, compiendo cambiamenti solo in incrementi. Siamo convinti di poter rendere la nostra società più trasparente e comprensibile».
Pilastro della performance rimane, oggi come domani per gli operatori, la raccolta pubblicitaria sul Web: rappresenta l’89% del giro d’affari, con un dollaro su dieci di spot globali sull’autostrada elettronica che finiscono nella casse del gruppo. Dal quarto trimestre Alphabet – con sede legale in Delaware e un indirizzo del sito che si legge, non caso, abc.xyz – riporterà risultati separati da una parte proprio per questo core business, vale a dire Google compreso motore di ricerca, YouTube e asset nelle tecnologie mobili, dall’altra per tutte le altre attività.

«Questo chiarirà quali siano le operazioni che che portano a casa il pane e quelle che sono progetti scientifici o scommesse di lungo termine», ha detto Roger Kay di Endpoint Technologies Associates. E offre anche nuove flessibilità: «Se un’attività non va bene – ha aggiunto l’analista – possono potenziarla o emarginarla, formare specifiche partnership oppure scorporarla più facilmente».
Nel nuovo organigramma di vertice che accompagna la rivoluzione, subito sotto Page siederà Brin, sulla poltrona di direttore generale di Alphabet. Direttore finanziario dell’intera holding rimarrà Ruth Porat, che ha già oggi ha le redini dei conti di Google. Mentre Google Inc. sarà formalmente la maggior controllata, una controllata di lusso, della holding e a livello operativo sarà affidata alle esperte mani dell’attuale braccio destro di Page, il 43enne Sundar Pichai, responsabile di prodotti di successo del calibro dei sistema operativo Android e del browser Chrome.

Fonte : Il Sole 24 Ore

La Cina spiazza tutti e svaluta ancora. Contagio sulle monete asiatiche. Dal Vietnam primo segnale di «guerra valutaria»

tokyo--borsa-258x258TOKYO – Lo yuan cinese è sceso oggi ai minimi da 4 anni sul dollaro trascinando al ribasso altre valute asiatiche in un declino che – su un arco di due giorni – non si registrava dai tempi della crisi finanziaria del 1998, con effetti negativi a largo raggio sui mercati finanziari, dalle Borse alle materie prime.

Dopo la mossa a sorpresa di ieri (una svalutazione dell’1,9%) oggi la banca centrale cinese (PBoC) ha fissato il cambio di riferimento a un livello più basso di un altro 1,6% a quota 6,3306. Sul mercato spot la divisa cinese è calata oltre la soglia di 6,4, il livello minimo dall’agosto 2011 e nel trading offshore è arrivata a sfiorare 6,6. Se il nickel guida ulteriori ribassi delle commodity (con il petrolio ai minimi da sei anni, molto volatile dopo il precedente flop), il Bloomberg JPMorgan Asia Dollari Index in due giorni risulta in calo del 2,4%. Il dollaro australiano è sceso ai minimi da sei anni sul biglietto verde.

Borse sotto pressione
Dopo la performance negativa di ieri dei mercati occidentali, l’indice azionario regionale MSCI Asia-Pacific oggi risulta in ribasso intorno all’1,6 per cento, in correzione di oltre il 20% rispetto ai picchi del settembre scorso, con ribassi generalizzati. Anche la Borsa di Tokyo soffre, con un ripiegamento in giornata tra l’1% e il 2% nonostante l’apprezzamento del dollaro anche nei confronti dello yen oltre la soglia di un cambio a 125. L’indice Nikkei ha chiuso in ribasso dell’1,58% a 20.392,77 punti.

Sotto pressione anche le piazze azionarie cinesi e di Hong Kong, mentre la Borsa di Singapore sta accusando la peggiore perdita giornaliera dallo scorso dicembre (intorno al 2,5%) trainata dal tonfo dei titoli bancari. Gli investitori di Borsa e dei mercati delle materie prime sembrano temere soprattutto il rallentamento della crescita economica cinese, di cui le nuove mosse della Pboc vengono interpretate come un chiaro segnale.

Tentativo di rassicurazione
La People’s Bank of China ha cercato di calmare i mercati sottolineando che non esistono “basi” economiche o finanziarie perché il cambio si indirizzi con continuità al ribasso. Riconosce però che potrà verificarsi un “breve periodo di adattamento” al nuovo meccanismo per la fissazione della parità centrale giornaliera. Naturalmente Pechino non ha mai indicato il presunto motivo principale per la svalutazione, ossia il sostegno a una economia che sta rallentando più del previsto (con un calo dell’export dell’8,3% a luglio) e mette in forse l’obiettivo di una crescita annuale intorno al 7 per cento. Il deprezzamento dello yuan, secondo vari analisti, rischia tra l’altro di esportare deflazione del mondo.

Dal Vietnam primo segnale di guerre valutarie
Un primo segnale di nuove “guerre valutarie” è arrivato dal Vietnam, che ha deciso oggi di raddoppiare al 2% la fascia consentita di oscillazione giornaliera del cambio del dong. Intanto la rupia indonesiana e il ringgit malese sono scesi ai minimi da 17 anni nei confronti del dollaro. Un rimpasto governativo in Indonesia cambia oggi i ministri responsabili per l’economia e il commercio. La rupia indiana è vicina ai minimi da due anni, il dollaro australiano ai minimi da sei anni nei confronti del biglietto verde. Secondo gli analisti del Credit Suisse, l’indebolimento dello yuan potrebbe indurre la Banca del Giappone a introdurre ulteriori stimoli monetari. Per Bnp Paribas non si può escludere una svalutazione tra il 5 e il 10% dello yuan prima che la banca centrale intervenga per mettere il freno.

Fuga verso i bond di qualità
La preoccupazione per una corsa a svalutazioni competitive crea presso gli investitori spinte di “fuga” verso asset di qualità, a partire dai titoli del Tesoro Usa e diventa un fattore destabilizzante per i mercati finanziari riducendo la propensione per gli asset di rischio, come titoli azionari e commodity. Anche i bond giapponesi hanno guadagnato, i rendimenti del decennale nipponico in calo allo 0,37%, minimi da tre mesi e mezzo.

Fonte : Il Sole 24 Ore

 

Istat, crescita soft dell’economia anche per il 2° trimestre

Nei mesi ini4097301_XS.t.W300.H188.M4ziali del 2015, le indicazioni favorevoli a una ripresa dell’attività economica si sono gradualmente rafforzate, come indicato dalla significativa accelerazione del prodotto interno lordo nel 1° trimestre (+0,3%). La crescita è stata trainata dall’incremento del valore aggiunto dell’industria in senso stretto e delle costruzioni (+0,6% e +0,5%), in presenza di una sostanziale stazionarietà delle attività dei servizi.

Lo ha comunicato l’Istat nella nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, spiegando come per la prima volta dalla fine dello scorso anno, e dopo quattro mesi di variazioni annue negative, l’indice dei prezzi al consumo in base alla stima provvisoria di maggio, ha registrato una dinamica tendenziale positiva. L’inflazione è risultata pari allo 0,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto ad aprile. L’inversione di tendenza – spiega l’Istat – è imputabile in larga parte ai maggiori costi per l’approvvigionamento energetico seguiti alla ripresa dei corsi petroliferi.

La crescita economica è dunque attesa proseguire nei prossimi mesi. Sulla base del modello di previsione di breve termine dell’Istat, la variazione congiunturale reale del PIL prevista per il secondo trimestre è pari a +0,2%, con un intervallo di confidenza compreso tra 0 e +0,4%. Sia la domanda nazionale (al netto delle scorte) sia la domanda estera sono attese fornire un contributo positivo.

In questo scenario, la crescita acquisita per il 2015 è pari allo 0,4%.

Fonte : Teleborsa

Ftse Mib, correzione non ancora finita

Ancora una seduta difficile per gli indici europei che non hanno apprezzato le figure preliminari sugli indici PMI della zona euro.
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A distanza di un mese dalla partenza del QE, l’entusiasmo tra i direttori d’acquisto sembra essersi ridimensionato.
In realtà, crediamo che i recenti cali siano imputabili per lo più a una fase molto volatile che i mercati stanno attraversando in vista dei prossimi dati Usa importanti e dell’evoluzione della crisi greca.
Anche il nostro indice, reduce da una performance importante (+21%), ora sta attraversando una fase di correzione. Non ci dobbiamo stupire pertanto se le vendite sono violente. Nel medio lungo periodo l’impostazione rimane rialzista.
Dal punto di vista tecnico, il mercato sta testando ora i minimi dell’ultima settimana, a 22.950 punti.
Il supporto successivo passa per 22.650 punti, minimi del 26 marzo e primo ritracciamento di Fibonacci nell’ascesa partita dai minimi del 2015. Solo una perforazione di tale riferimento potrebbe aprire a un affondo verso 22.250 punti e poi a 21.750. Quest’ultimo è livello al di sotto del quale il mercato potrebbe subire una sensibile perdita di spinta.
Indicazioni rialziste si avrebbero con il superamento di area 23.400-23.430 punti. Il primo target rimane in questo caso a 23.750 punti e poi a 24 mila punti, top di aprile.

Fonte : Bloomberg

La Bce anestetizza la crisi greca

«Never fight the Fed». Negli Stati Uniti, patria della finanza, esiste un motto: «Mai andare contro la banca centrale». Mai sfidarla, mai contrastarla. Per guadagnare in Borsa, bisogna assecondarla. In Europa, dove non esistono proverbi finanziari autoctoni, gli investitori sembrano essersi perfettamente allineati alla “saggezza” americana: sebbene la crisi greca rischi di diventare esplosiva, è infatti la Banca centrale europea a guidare i mercati finanziari.

La Grecia, almeno per ora, appare alla maggioranza degli operatori solo un rumore di fondo. Produce solo l’occasione per incassare i profitti dei rally delle Borse. Ma nessuno, sul mercato, sembra preoccuparsi davvero: perché la Bce, con i 60 miliardi di euro stampati ogni mese, tranquillizza tutti. Nessuno, almeno per ora, la contrasta: neppure il timore per la bomba greca.

Bce più forte di Atene
Che il «quantitative easing» (cioè l’iniezione di liquidità da parte della Bce) sia più “forte” della crisi di Atene, lo dicono i numeri che arrivano dai mercati stessi. C’è un grafico che parla da solo: quello che rivela come la correlazione tra i BTp italiani e i titoli di Stato greci sia ai minimi dalla nascita dell’euro. Fino all’inizio della crisi finanziaria del 2008, l’andamento dei due titoli di Stato era sincronizzato: saliva uno saliva l’altro, scendeva uno scendeva l’altro. La correlazione, fino a fine 2008, era praticamente pari a 1: cioè quasi perfetta. Poi, con l’inizio della crisi greca nel 2010, si è invertita: i titoli di Atene soffrivano molto (i loro rendimenti salivano), ma quelli italiani reggevano molto meglio. Quell’anno, per la prima volta, la correlazione tra BTp e titoli greci stata dunque negativa (l’indice è andato fino a -0,4). Poi, con alti e bassi, dal 2012 a fine 2014 è tornata positiva, avvicinandosi ancora a uno. Ma nel 2015 è diventata nuovamente negativa, fino a toccare il 15 aprile scorso il minimo storico di -0,82.
Titoli greci e BTp, insomma, sono diventati quasi perfettamente divergenti: soffrono i primi, godono i secondi. Questo significa che nel 2015 la Grecia ha vissuto una crisi finanziaria isolata, che non ha minimamente contagiato l’Italia sui mercati. E lo stesso si può dire di Spagna e Portogallo: anche nei confronti dei loro titoli di Stato la correlazione è sui minimi storici. Persino negli ultimi due giorni di turbolenza sui mercati non è cambiato molto: da -0,82, la correlazione tra BTp e titoli greci è salita a -0,81. Un movimento minimo, che lancia un messaggio ben preciso: i mercati – almeno per ora – non temono che Atene, qualunque sia l’epilogo della sua vicenda, possa contagiare gli altri Paesi del Sud Europa.

Il motivo di questa convinzione – giusta o sbagliata che sia – è proprio legato alla Bce, che a marzo ha varato il suo «quantitative easing»: questo significa che l’istituto centrale ogni mese stampa 60 miliardi di euro e con i soldi “nuovi” compra titoli di Stato (e altro) sul mercato. Questa manovra monetaria ha prodotto grandi effetti sui mercati. Ha fatto crollare l’euro: dal 22 agosto scorso, quando a Jackson Hole si è iniziato a parlare di «Qe» in Europa, la moneta unica ha perso l’11,17% rispetto alle valute di tutti i partner commerciali. Ha anche abbassato in maniera netta i rendimenti dei titoli di Stato. Ancora gli effetti sull’economia reale sono limitati (minimi sono i segnali sul credito alle imprese e sull’inflazione), ma sui mercati la Bce ha avuto un effetto senza dubbio dirompente. E anche ora che la Grecia rischia seriamente il default, gli operatori ritengono che il «quantitative easing» sia in grado di limitare in maniera sostanziale l’impatto nel resto d’Europa.

I mercati hanno ragione?
Questo è ciò che pensano i trader, anche dopo due giorni di turbolenze sulle Borse: che Atene non costituisca un vero problema per il resto d’Europa. Ma se da un lato questo può rasserenare (perché riduce le probabilità di un vero panico finanziario), dall’altro può anche preoccupare: perché dimostra per l’ennesima volta quanto i mercati finanziari siano inebriati dalle iniezioni di liquidità e quanto siano ormai dipendenti dalle banche centrali. Per loro, ormai, un’alzata di ciglia di Mario Draghi o di Janet Yellen è più importante di un Paese europeo sull’orlo dell’abisso economico-finanziario. A pensarci bene, è terrificante.
Per di più non è detto che, in questo loro ottimismo, i mercati abbiano per forza ragione. Perché i canali di trasmissione di un possibile contagio da Atene al Sud Europa, qualora il Paese finisca in default o esca dall’euro, sono potenzialmente tanti. Sia sul fronte bancario, sia su quello statale (si veda il Sole 24 Ore di venerdì scorso). Nessuno può prevedere oggi gli effetti a catena di un evento traumatico in Grecia. Se per ora i mercati ostentano grande tranquillità, dunque, è perché sono inebriati dalla liquidità della Bce. Ma che abbiano ragione, è tutto da dimostrare.

Fonte : Il Sole 24 Ore

 

Bce-Banca d’Inghilterra, pace fatta sui titoli in euro

bce-ap-258Finisce con un “trattato di pace” la lunga contesa che ha diviso Banca centrale europea e Banca d’Inghilterra sulla possibilità che le casse di compensazione britanniche potessero o meno negoziare strumenti in euro. Dopo il divieto imposto dalla Bce, il ricorso del 2011 del Governo inglese e la decisione dello scorso marzo della Corte di Giustizia europea che aveva bocciato la decisione di Francoforte (”Non ha le competenze necessarie per regolare queste attività”), Bce e Bank Of England hanno annunciato di aver trovato un’intesa.

Da un lato si permette alle istituzioni britanniche, in particolare le cosiddette società di compensazione (le clearing houses, che si pongono come intermediario in uno scambio per garantire che questo vada a buon fine anche se una delle due parti dovesse fallire), di trattare strumenti in euro, senza dover trasferirsi nel ”continente”, come richiedeva originariamente la Bce. E dall’altro aumenta lo scambio di informazioni sulla direttrice Londra-Francoforte, con la Bce che avrà quindi maggiori dati in proprio possesso per prevenire eventuali crisi sistemiche scatenate da un possibile fallimento di una clearing house.

Il piatto della bilancia, però, sembra pendere decisamente da parte della City, che si è sempre opposta al trasferimento nell’Eurozona delle diverse casse di compensazione, per timore che questo potesse danneggiare il ruolo di Londra come principale centro finanziario da questo lato dell’Oceano, a tutto vantaggio della piazza di Francoforte.

Adesso che la Bce e il governo britannico hanno annunciato la chiusura di tutte le azioni legali che Londra ha aperto sulla questione, si può mettere una pietra sopra a una vicenda che rischiava di trasformarsi in uno screzio difficile da sanare a pochi mesi dalle elezioni inglesi. Non è un caso quindi l’aperta manifestazione di sollievo da parte di George Osborne: l’accordo, per il cancelliere dello Scacchiere britannico, “è vitale per il nostro rapporto con l’Eurozona e rappresenta un ulteriore passo avanti verso una riforma dell’Unione europea”. Il compromesso raggiunto, sottolinea, “non solo rafforza la stabilità finanziaria all’interno dell’Unione, ma sancisce anche un fondamentale principio di non discriminazione per i Paesi al di fuori della zona euro”.

Fonte : Il Sole 24 Ore

 

Risparmio degli italiani, meno del 10% finisce all’economia reale nazionale

Geld 607Narra il luogo comune che in Italia gli investimenti per la crescita e lo sviluppo soffrano perché non ci sono i soldi. Perché le banche hanno ridotto i finanziamenti all’economia reale. Perché non ci sono capitali alternativi. Non è del tutto vero. In Italia le famiglie hanno 3.848 miliardi di euro di ricchezza finanziaria (che diventano 9.614 includendo gli immobili), l’industria del risparmio gestito ha 1.675 miliardi di euro da impiegare sui mercati, le assicurazioni 541 miliardi e i fondi pensione 126. In un Paese che vanta questi numeri, nonostante la lunga recessione, non si può dire che la ricchezza non ci sia.

Se anche le banche non sostengono più le imprese come una volta, i capitali “alternativi” da fare arrivare al sistema produttivo made in Italy dunque ci sarebbero. Il problema è che questi soldi sono mal distribuiti e, soprattutto, male investiti: di questa montagna di capitali, secondo un calcolo approssimativo elaborato dal Sole 24 Ore, molto meno del 10% va infatti a finanziare le imprese italiane e lo sviluppo economico. Tutto il resto finisce in titoli di Stato o all’estero: la ricchezza degli italiani, insomma, serve in minima parte a sostenere lo sviluppo dell’Italia. Anche se qualcosa, piano piano, inizia a cambiare.

Capitali senza sviluppo
Sono i numeri, seppur incompleti e in alcuni casi fermi al 2013, a parlare da soli. Partiamo dall’ultimo dato della Banca d’Italia sulla ricchezza delle famiglie: quella finanziaria, come detto, ammonta a 3.848 miliardi. Di questi, solo 60,3 miliardi sono investiti direttamente in azioni quotate in Borsa o in obbligazioni emesse da aziende: solo l’1,5% circa (escludendo i capitali che gli imprenditori mettono nelle proprie aziende) finisce dunque direttamente alle imprese. Il che è normale, dato che il “tesoretto” delle famiglie è impiegato in forme varie di risparmio gestito. Il problema è che anche il risparmio gestito e assicurativo finisce all’economia reale col contagocce. Le assicurazioni, secondo i dati Ivass, destinano per esempio pochi soldi all’economia produttiva italiana: del loro portafoglio titoli (pari a 541,8 miliardi di euro), solo il 12% circa va in azioni e obbligazioni aziendali.

Anche assumendo che la metà di questi titoli sia made in Italy (ed è una stima molto generosa), questo significa che dei 541 miliardi che le assicurazioni si trovano a gestire, solo il 6% serve a sostenere le imprese italiane. Non un grande sforzo.E i fondi pensione sono ancora più avari. Nell’ultima relazione annuale Covip si legge infatti che solo il 2,5% del loro patrimonio totale finisce in azioni oppure obbligazioni aziendali italiane. Nulla, se si pensa che – secondo i dati del Mefop – all’estero i fondi pensione investono mediamente il 46,5% del loro patrimonio in azioni della propria Borsa nazionale. Solo i fondi di private equity della Penisola mettono il 90% dei loro capitali in imprese italiane, ma si tratta di briciole: nel 2014 gli investimenti sono ammontati a 3,5 miliardi (dati Aifi).

Difficile invece capire quante fiches dei fondi comuni (che hanno in totale 735 miliardi) finiscano alle imprese italiane sotto forma di azioni o bond. Qualche stima si può fare sulla Borsa: secondo i dati di Factset, i fondi di diritto italiano hanno attualmente 14,4 miliardi (dato in dollari)a Piazza Affari. È vero che tanti fondi sono di diritto estero, ma anche sommando tutti i fondi internazionali (di matrice italiana e non) ci si ferma a 60 miliardi. Comunque poco.

Qualcosa si muove
Questo significa che il risparmio degli italiani serve poco all’Italia. Porta poco sviluppo vero, ma resta immobilizzato in titoli di Stato o finisce all’estero. È vero che gli investimenti vanno diversificati, nessuno lo nega. E che devono rendere. Ma basterebbe che solo un 2,5% aggiuntivo della ricchezza finanziaria delle famiglie finisse anche indirettamente (attraverso le assicurazioni o i fondi) al sistema produttivo italiano, che verrebbe colmato il “buco” creditizio causato dalla crisi: dal 2011 in Italia il credito bancario si è ridotto di 100 miliardi circa, cifra che corrisponde proprio al 2,5% della ricchezza delle famiglie. Insomma: basterebbe uno sforzo minimo per aiutare l’Italia a crescere.

Eppure, per motivi culturali (le imprese italiane sono spesso restie ad accettare investitori istituzionali), normativi (in Italia le aziende sono sempre state incentivate a indebitarsi in banca e gli investitori a comprare titoli di Stato) e storici, tutto questo non accade. Il mercato finanziario è atrofizzato e la ricchezza (che c’è) non finisce dove porterebbe benessere, sviluppo e nuova ricchezza (vera). Ma qualcosa sta cambiando. Da un lato perché i titoli di Stato ormai rendono zero: questo spinge gli investitori vari a dirottarsi anche verso la Borsa.

Dall’altro perché la legislazione italiana ed europea sta cercando di favorire la nascita di un canale alternativo a quello bancario per finanziare le imprese: lo dimostrano la legge sui mini-bond, alcune iniziative del Governo (come il programma «finanza per la crescita»), alcune mosse europee (per esempio l’accordo sui fondi a lungo termine “Eltif”, il piano Junker o il progetto per l’unione dei mercati dei capitali). Anche l’Ivass a fine 2014 ha varato un provvedimento per permettere alle assicurazioni di erogare credito diretto alle imprese.

Fonte : Il Sole 24 Ore