La Fed fa risalire il petrolio, ma si preparano nuovi ribassi

petrolio-barili-marka--258x258La Federal Reserve ha rimescolato le carte in tavola, innescando una reazione violenta anche sui mercati petroliferi. Dopo il comunicato della banca centrale americana, le quotazioni del barile hanno virato con decisione al rialzo: il Wti – che nel corso della giornata era sceso fino a 42,03 dollari, il minimo da sei anni – è riuscito a chiudere in progresso del 2,8%, a 44,66 dollari. Ancora più spettacolare è stato il rimbalzo del Brent: +4,5% a 55,91 $/barile.

Pur abbandonando la parola «paziente» in riferimento al rialzo dei tassi di interesse, la Fed si è dimostrata molto più prudente di quanto ci si aspettasse: la prospettiva che il costo del denaro negli Usa possa aumentare già da giugno si è allontanata e il dollaro ha ceduto terreno, favorendo viceversa un rimbalzo delle materie prime. Si tratta di un comportamento piuttosto tipico, visto che queste sono quotate nella divisa americana. Ma è difficile pensare che la Fed sia riuscita a risollevare davvero le sorti del petrolio. Al contrario. Tutto lascia pensare che il prezzo del barile scenderà ancora, con ribassi che secondo uno studio appena pubblicato dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) potrebbero risultare amplificati dal comportamento delle compagnie petrolifere, oggi diverso da un tempo a causa della montagna di debiti che il settore ha accumulato: ben 2.500 miliardi di dollari nel 2014 a livello globale, contro i mille miliardi stimati per il 2006. Una quantità che spinge la Bri – prima tra le istituzioni internazionali – a parlare addirittura della possibilità di «rischi sistemici» per l’economia mondiale.

Dopo una fase di recupero in febbraio, il prezzo del barile ha ricominciato a scendere con decisione nelle ultime settimane, con le vendite che si sono accanite soprattutto sul Wti: il riferimento americano ha perso circa il 15% questo mese, di riflesso alle condizioni estremamente deboli del mercato negli Stati Uniti. L’allarme sulle scorte in particolare è tornato in primo piano: con la produzione di shale oil che ancora non ha rallentato il passo – e con il divieto di esportare greggio tuttora in vigore – milioni di barili si stanno accumulando nei serbatoi di stoccaggio, che ora sono talmente pieni da temere che possano traboccare. Una volta esaurito lo spazio, il petrolio dovrà essere svenduto. Oppure stoccato (a un costo più elevato) a bordo di petroliere. In entrambi i casi il prezzo sembra condannato a scendere.

Proprio ieri è arrivata la conferma che le giacenze sono salite per la decima settimana consecutiva, portando le scorte commerciali negli Usa a 458,51 milioni di barili (+9,6 mb), un livello che non si raggiungeva dagli anni ’30. A Cushing, il punto di consegna del Wti, sono arrivati altri 2,9 mb e si è saliti al record assoluto di 54,4 mb, pari a circa il 70% della capacità dei serbatoi (che per motivi tecnici non dovrebbe essere sfruttata oltre l’80%). Stimare quanto spazio resti ancora negli stoccaggi americani non è facile: le cifre che circolano sono discordanti, ma diversi analisti temono che si possa arrivare al “sold out” verso aprile-maggio. A meno che l’estrazione di greggio negli Usa non inizi finalmente a calare.

Se finora non l’ha fatto, suggerisce la Bri, potrebbe dipendere anche dal fatto che i produttori hanno bisogno di estrarre a qualunque condizione, per pagare gli interessi sui debiti. Altre pressioni sul prezzo del barile sarebbero generate da un’attività di hedging più intensa rispetto al passato. Il superindebitamento del settore non solo rinvia la reazione del mercato all’eccesso di petrolio. Ma comporta rischi per tutta l’economia: «La rapida crescita della leva – osserva la Bri – crea per le aziende un’esposizione al rischio che può trasmettersi al sistema finanziario globale».

Fonte : Il SOoe 24 Ore

Miracolo Irlanda: l’economia cresce più degli Stati Uniti

Fotolia_20765468_XS.t.W300.H188.M4Gli anni bui della crisi del debito sembrano ormai essere un incubo lontano, al punto che c’è già chi torna a parlare di Tigre celtica.

Una cosa è certa: con un PIL in crescita del 4,8%, in questo momento l’Irlanda è l’economia dell’Unione Europea con lo stato di salute migliore.

I dati, diffusi dal Central Statistics Office irlandese, hanno confermato per il 2014 un’espansione economica di quasi 5 punti percentuali, in forte crescita rispetto al +0,2% messo a segno nell’anno precedente, e decisamente al di sopra del +2,6% della vicina Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

Questo, nonostante l’ancora basso livello della spesa pubblica, reduce da anni di austerity imposta dalla Troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) come condizione per ricevere il programma di salvataggio.

Non solo: sembra che la deflazione non sia una minaccia per il Paese, visto che a febbraio i prezzi al consumo sono saliti dello 0,6% dopo il tonfo dello 0,8% di gennaio, anche se il crollo delle quotazioni energetiche ha influito notevolmente sull’inflazione.

Fonte : Teleborsa

Euro sempre più giù. Investire (e guadagnare) con l’effetto-cambio

euro-bussola-olycom-258Il quantitative easing della Banca centrale europea ha già sottratto molte frecce all’arco dei risparmiatori, abbattendo di fatto i rendimenti dei BTp di cui storicamente si riempiono i portafogli, ma sta fornendo loro nuove armi, anche più potenti se manovrate con destrezza.

Il crollo dell’euro ai minimi degli ultimi 12 anni ha infatti reso automaticamente più conveniente cercar fortuna al di fuori dell’Eurozona: l’esempio più banale lo fornisce Wall Street, il cui bilancio è tutto sommato in parità da inizio anno ma si trasforma in un +12% ben più soddisfacente e quasi in linea con le performance di Piazza Affari o Francoforte quando lo si guarda con l’occhio di un investitore italiano che non copre il rischio di cambio. Sui titoli di Stato l’impatto è ancora più evidente: investire in un generico BTp ha già generato nel 2015 un rendimento del 4,6%, che però impallidisce al confronto dell’acquisto di un Treasury.

I valori di un bond Usa non sono infatti sostanzialmente cambiati negli ultimi due mesi, ma se si tiene conto dell’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro (+12,6%) è come se si fosse portato a casa un guadagno quasi triplo. Merito dunque del cambio, favorevole in questo caso, ma che resta comunque una variabile da maneggiare con cura. Non è detto infatti che da qui in poi la fase di indebolimento dell’euro (che vale anche sulle altre valute, comprese le emergenti) sia destinata a proseguire: chi ha spostato qualche mese fa parte degli investimenti fuori dall’area ne ha già approfittato, chi si appresta a farlo adesso potrebbe non incontrare la stessa sorte. «Starei molto attento ad andare a investire fuori dalla zona euro proprio ora che il dollaro ha guadagnato 30 centesimi sulla moneta unica», avverte Michele de Michelis, responsabile investimenti di Frame Am, che dubita che il cambio possa andare sotto la parità a breve: «L’euro debole, il quantitative easing in corso e il petrolio ai minimi – aggiunge de Michelis – rendono più interessante l’Europa, tant’è che anche investitori come Warren Buffett puntano qua».

La sua è una visione per molti aspetti contraria, visto che le principali case d’investimento (a cominciare da Morgan Stanley, Barclays e Goldman Sachs) si attendono invece un euro in continua discesa per il differente atteggiamento della Bce (in piena espansione di bilancio) rispetto ad altre banche centrali (che si faranno invece più restrittive come la Federal Reserve o la Banca d’Inghilterra). «Credo che i recenti movimenti valutari siano destinati a proseguire anche nei prossimi mesi e che ci sia ancora quindi una forte convenienza a diversificare il portafoglio al di fuori dell’area euro», sostiene Claudio Barberis, responsabile asset allocation di MoneyFarm.

Il punto è quale fetta del portafoglio destinare alle attività in valuta estera e come sceglierli. «Incrementerei del 15-20% la quota che di solito viene impiegata al di fuori dell’Europa e cercherei di suddividere il rischio sulla base di temi differenti: Stati Uniti e Gran Bretagna sono per esempio interessanti per via delle politiche monetarie divergenti delle loro banche centrali rispetto alla Bce; alcuni paesi emergenti perché offrono tassi interessanti, le loro valute vengono da un periodo di debolezza e si possono comprare a prezzi interessanti», osserva Barberis. Non si tratta di soli titoli di Stato: «I bond aziendali Usa ad alto rendimento - prosegue Barberis – si comprano a buon prezzo perché sono stati indeboliti dal crollo del petrolio e altrettanto si può dire per le azioni dei mercati emergenti, che in media trattano su prezzi più bassi rispetto agli utili del 20-30% rispetto a Wall Street e all’Europa». Cruciale è destinare a ciascuna di queste storie o Paesi una parte limitata della ricchezza, proprio per evitare di subire perdite rilevanti nel caso si dovesse incappare nella classica mela marcia .

Fonte : Il Sole 24 Ore

A segno le aste del Tesoro: collocati 8,7 miliardi con tassi ai minimi storici

Listini europei in moderato rialzo (qui l’andamento dei maggiori indici) e nuova ondata di acquisti sui titoli di Stato (qui i rendimenti dei principali bond governativi) con i mercati che si posizionano in vista dell’avvio del Quantitative easing della Bce.

Le Borse beneficiano del rialzo a sorpresa degli indicatori sulla fiducia di consumatori e imprese nell’Unione europea. A febbraio l’Esi, l’Economic Sentiment Indicator calcolato dalla Commissione europea, ha segnato un incremento di 0,7 punti per la zona euro, a 102,1 punti, e di 0,4 nella Ue, a 105,1. Gli indici sono stati trainati al rialzo dall’aumento della fiducia dei consumatori e del commercio al dettaglio, mentre sono rimasti stabili industria, servizi e costruzioni. Fra le principali economie dell’area euro l’indicatore ha segnato un balzo in Italia (+2,4 punti) e Francia (+2), è salito in Spagna (+0,8) ed è sceso in Germania e Paesi Bassi, dove ha registrato una flessione di 0,5 punti.

Negativi invece i segnali in arrivo da oltreoceano. Le richieste iniziali di sussidi di disoccupazione negli Stati Uniti sono cresciute nel corso dell’ultima settimana di 31mila unità a quota 313mila. Il dato reso noto dal dipartimento del Lavoro è peggiore delle attese degli analisti che si attendevano un rialzo più modesto a quota 290mila.

Oggi il Tesoro è tornato sul mercato primario dei titoli di Stato con il collocamento di bond a medio-lunga scadenza. Nello specifico il Tesoro ha collocato BTp decennali per l’ammontare massimo pari a 4,5 miliardi con tassi ai minimi storici (1,36%) e una solida domanda: la richiesta è stata pari a 1.53 volte l’offerta. Bene anche il collocamento a 5 anni con il rendimento sceso dallo 0,89% dell’analogo collocamento di gennaio allo 0,56 per cento. Collocati 2,5 miliardi. Venduti anche CctEu 2020 per 1,75 miliardi di euro con il tasso in calo a 0,62% (da 0,87%).

Sul fronte azionario si registra l’inversione di rotta dei titoli Rai Way, Ei Towers e Mediaset all’indomani di una seduta rally segnata dall’annuncio dell’Opa della controllata del Biscione sull’azienda che gestisce le reti di trasmissione della Rai. Un’operazione che tuttavia resta frenata dal vincolo del 51% di quote di Rai Way che per legge devono restare in mano pubblica e che bloccano qualsiasi tipo di integrazione.

Si segnala poi il ribasso del titolo Enel all’indomani della cessione del 5.7% del capitale da parte del Tesoro che ha così incassato 2,2 miliardi di euro.

Tra le notizie di giornata si segnala l’accordo raggiunto da Autostrade per l’Italia (controllata di Atlantia) per rilevare l’intero controllo dell’Autostrada Tirrenica (Sat) di cui attualmente detiene il 24,98%. Il controvalore dell’operazione è di 84 milioni di euro per il 74,95% del capitale della Tirrenica.

Fonte : Il Sole 24 Ore

 

Sovrappesare gli investimenti azionari

tse-tokyo-nikkei-stock-afp-telefoto-258-258Nel prossimo futuro gli investitori dovranno attendersi rendimenti di mercato (“Beta”) modesti. Outlook mensile di Allianz Global Investors

Allocazione tattica, azioni e obbligazioni

• Poiché la Financial Repression è ancora in atto e le obbligazioni governative statunitensi e tedesche appaiono onerose, confermiamo la nostra principale convinzione: il rischio più grande è non correre alcun rischio.
• Alla luce di una crescita tendenziale modesta e di tassi ancora bassi, nel prossimo futuro gli investitori dovranno attendersi rendimenti di mercato (“Beta”) modesti e una crescente volatilità.
• Le condizioni di liquidità, il miglioramento delle previsioni di crescita e le valutazioni suggeriscono di sovrappesare gli investimenti azionari.

Focus sui mercati

Azioni Europa

• Gli investimenti nell’area Euro dovrebbero strutturalmente beneficiare del consolidamento dell’Unione Monetaria, della ristrutturazione delle aziende e dei tassi contenuti. Con il recente programma di Quantitative Easing la BCE ha favorito un aumento della liquidità. Inoltre, è positivo che la domanda di prestiti abbia registrato un’accelerazione.
• Sulla base dell’indice dei direttori degli acquisti, l’Eurozona ha iniziato il nuovo anno con grande slancio.
• In base al P/E di Schiller (rapporto prezzo/utili depurato degli effetti del ciclo economico) sia l’Area Euro che il Regno Unito continuano a evidenziare valutazioni convenienti.

Azioni USA

• L’economia statunitense rimane il principale motore della congiuntura mondiale e conferma la propria solidità, nonostante un potenziale di crescita ancora inferiore a quello del periodo pre-crisi.
• Il mercato immobiliare continua a registrare un moderato miglioramento. Il basso prezzo del greggio favorisce i privati, mentre penalizza la produzione di gas e petrolio di scisto.
• Con la chiusura dell’output gap, emergono i primi segnali di pressione salariale, che anche la Fed probabilmente terrà presenti per la futura politica monetaria.
• Nel contesto globale il mercato azionario statunitense presenta valutazioni molto ambiziose, soprattutto in base al P/E di Shiller.

Azioni Giappone

• La ripresa dell’attività economica resta piuttosto debole.
• Escludendo gli effetti dell’aumento dell’IVA, c’è poco da segnalare per quanto riguarda la dinamica inflazionistica, nonostante la “Abenomics”.
• La continua svalutazione dello Yen e la migliore profittabilità delle imprese dovrebbero dare impulso al mercato azionario nipponico, soprattutto nel breve periodo. Gli investitori internazionali devono tenere conto del cambio.

Azioni mercati emergenti

• Anche nelle aree emergenti si è verificato un rallentamento dell’attività economica; in alcuni Paesi, tuttavia, è stato avviato un promettente programma di riforme per stimolare la crescita.
• Il mercato immobiliare cinese sembra attraversare una fase di decelerazione, ma non di crisi.
• Per quanto riguarda i mercati azionari dei Paesi in via di sviluppo, gli investitori dovrebbero agire con maggior cautela: la recente ripresa dei dati macroeconomici sembra ancora piuttosto timida. Inoltre, in passato il calo dei prezzi delle commodity e l’apprezzamento del Dollaro USA avevano penalizzato l’insieme dei Paesi emergenti.

Settori

• In seguito alla decisione della BCE sono aumentate le possibilità di un orientamento più ciclico dei mercati. In particolare, il settore finanziario dovrebbe guidare la futura tendenza rialzista.
• Consigliamo di mantenere in portafoglio imprese di elevata qualità con business model difensivi e buone prospettive di crescita a lungo termine.
• Per quanto riguarda le valutazioni, ci sono segnali sempre più evidenti di una rotazione dai settori difensivi “cari” a quelli ciclici più “convenienti”.
• Nell‘ambito ciclico, le commodity presentano valutazioni interessanti e beneficiano di una storia di crescita a lungo termine in cui rientra anche il ciclo degli investimenti USA.

Tema di investimento: Dividendi – “interessi sulle azioni” contro interessi sulle obbligazioni

• In un contesto di crescita modesta e di rendimenti obbligazionari estremamente ridotti, i dividendi rimangono un’importante componente dei rendimenti azionari.
• In base alle nostre analisi, negli ultimi 40 anni i dividendi europei hanno rappresentato circa il 40% del rendimento totale degli investimenti azionari.
• Il dividend yield nell’Area Euro, ad esempio, è ancora superiore a quello delle obbligazioni societarie europee

Obbligazioni in Euro

• Da diverso tempo le obbligazioni governative nell’Eurozona non offrono rendimenti soddisfacenti, e per il momento tali rendimenti dovrebbero mantenersi modesti a seguito dell’abbondante liquidità.
• Il processo di consolidamento fiscale in atto nell’Area Euro e il rafforzamento dei meccanismi di sostegno internazionali dovrebbero contribuire, nel medio periodo, a una ulteriore diminuzione dei rischi di liquidità e di insolvenza nei Paesi periferici. Le preoccupazioni riguardanti la Grecia non sembrano interessare altri Stati europei.
• Valutiamo positivamente i cambiamenti politici in Italia. Il Presidente del Consiglio Renzi ha iniziato ad attuare le necessarie riforme strutturali (in particolare legge elettorale, settore pubblico, mercato del lavoro). Un’altra nota positiva è una situazione di bilancio migliore rispetto a quella di altri Paesi periferici nonostante l’elevato indebitamento.
• In Spagna il trend congiunturale positivo si è rafforzato. Il successo delle riforme strutturali e del consolidamento di bilancio supporta il miglioramento delle prospettive sui fondamentali.

Obbligazioni internazionali

• In ragione di una crescita economica ancora solida e del previsto rialzo dei tassi di interesse USA, ci aspettiamo un graduale aumento dei rendimenti dei Treasury nei prossimi mesi. Allo stesso tempo, tali aspettative di incremento potrebbero essere attenuate dal perdurare del contesto di Financial Repression.
• In ogni caso, secondo i nostri modelli le obbligazioni governative USA si confermano onerose.

Obbligazioni mercati emergenti

• Le obbligazioni e le valute dei Paesi emergenti dovrebbero continuare ad offrire prospettive solide agli investitori di lungo periodo.
• I rendimenti nominali sui mercati in via di sviluppo sono interessanti e molte valute locali appaiono sottovalutate in relazione al loro potere di acquisto. Si dovrebbero considerare soprattutto i Paesi emergenti dell’Asia.
• Una politica monetaria meno espansiva da parte degli USA potrebbe tuttavia alimentare la volatilità.

Obbligazioni societarie

• Le obbligazioni societarie Investment Grade e High Yield evidenziano valutazioni elevate, ma i fondamentali continuano a essere solidi.
• In base ai nostri modelli, i premi di rischio appaiono quindi tuttora giustificati. Per le obbligazioni corporate europee la situazione è un po’ più critica.
• Il contesto di bassi tassi di interesse e la ricerca di rendimento dovrebbero sostenere anche questo segmento.

Valute

• Le politiche monetarie divergenti (rialzo dei tassi nel 2015 da parte della Fed vs misure di allentamento della BCE) restano un fattore determinante per il cambio EUR/USD nel medio periodo.
• Il Dollaro sarà ancora sostenuto da fattori strutturali come ad es. la maggiore crescita potenziale.
• Per quanto riguarda lo Yen, il continuo forte aumento delle posizioni speculative corte deve essere visto nell‘ottica della politica monetaria aggressiva della Banca del Giappone.

Fonte : Fondi On Line

Il Dollaro forte è lo spauracchio delle grandi banche

5cd4e623-de9e-4a4f-938d-3bfc71cb6816.t.W300.H188.M4dollaro contro l’euro sta spingendo i dirigenti della Fed a sollevare che i finanziatori più grandi, in pratica le banche, dovranno affrontare oneri patrimoniali più elevati. I numeri però raccontano una storia diversa.

Quando il dollaro si rafforza, le attività delle banche americane aumentano la loro porzione sul totale mondiale e le banche, in questo contesto aumenterebbero di circa mezzo punto in percentuale le loro riserve di capitale. E’ quanto ha scritto John Gerspach, CEO di Citigroup , in una comunicazione agli investitori. In effetti le riserve di capitale sono calcolate usando una decina di parametri, tra cui una parte delle attività globali della banca e di questa fanno parte il trading su derivati e la liquidità per operazioni transfrontaliere.

Nei primi nove mesi del 2014, mentre il dollaro è aumentato del 9% contro l’euro, la quota di attività dei 75 istituti di credito più importanti del mondo in possesso delle otto maggiori banche degli Stati Uniti, è sceso al 15,7%, dal 15,8% segnato in precedenza.

Le attività denominate in dollari delle banche americane, non sono state gli uniche ad aumentare di valore. Anche le banche cinesi e britanniche sono aumentate contestualmente alla loro valuta. Lo yuan cinese è salito dell’11% per cento contro l’euro, lo scorso anno, mentre la sterlina britannica, nello stesso periodo, ha guadagnato il 7%.

Anche le banche europee, che hanno un patrimonio importante in dollari sui loro bilanci, non dovrebbero necessariamente vedere la riduzione della loro quota solo perché l’euro è in calo.

Fonte : Teleborsa

Il 2014 è delle blue chip

Nel 2014 le blue chip vincono sulle small cap in termini di rendimenti e conquistano il primo posto tra le asset class monitorate da Morningstar. E’ la prima volta dal 2000 a oggi. Nel complesso tutti gli stili di investimento, in termini di capitalizzazione e di tipologia di azioni (value, growth e blend), hanno registrato risultati positivi l’anno scorso e nell’ultimo quinquennio.

E’ stato un anno positivo anche per le obbligazioni governative e societarie a medio-lungo termine, mentre le materie prime sono state il fanalino di coda, principalmente a causa del crollo del prezzo del petrolio.

Se scendiamo nel dettaglio della componente obbligazionaria, le sorprese non mancano. I governativi a lungo termine hanno conquistato il podio per performance nel 2014 (18,2% l’indice Morningstar LT US gov’t bond), dopo che l’anno precedente erano stati il fanalino di coda. Questa posizione è invece toccata ai bond a breve termine (+1%). A livello mondiale, i rendimenti dei titoli di Stato decennali sono scesi (e quindi sono cresciuti i prezzi), in un contesto di attesa per l’aumento dei tassi negli Usa e di politica monetaria che rimane espansiva in Europa.

Asset class: chi vince e chi perde

Asset class: chi vince e chi perde

Le scelte degli investitori
Come si sono tradotte queste dinamiche nei portafogli degli investitori? Secondo ilMorningstar Market Observer, la buona performance dei mercati ha migliorato la posizione dell’asset allocation aggressiva (80% azioni Usa e 20% obbligazioni Usa) su quella prudente, ma quest’ultima ha dato i migliori risultati nei dodici mesi. A tre e cinque anni, è netto il vantaggio dei portafogli più rischiosi.

Gli investitori, tuttavia, si mostrano spesso impazienti, come mostra l’andamento della raccolta dei fondi, che continua a essere guidata da comportamenti che “inseguono le performance”, sbagliando i tempi di ingresso. Nel 2009, quando i mercati azionari hanno toccato i minimi, i risparmiatori hanno privilegiato il reddito fisso. Successivamente, nel 2013, c’è stata una rapida inversione di tendenza, così come nel 2014, quando sono tornati a crescere i flussi verso il reddito fisso (l’analisi è svolta sul mercato americano, ma dà utili indicazioni generali).

Il successo dei fondi passivi
Un altro trend emerso dallo studio è la netta preferenza per i fondi indicizzati, compresi gli Etf (Exchange traded product), rispetto a quelli attivi, soprattutto nelle categorie azionarie, dove i comparti Us equity gestiti attivamente hanno registrato una raccolta negativa, mentre i passivi sono largamente in territorio positivo. Segnali in questa direzione ci sono anche in Europa e sono diventati più marcati negli ultimi mesi. Non è un caso, che oltreoceano la società con la più alta raccolta nel 2014 sia stata Vanguard (+143,28 miliardi di dollari), colosso mondiale delle index strategy.

La variabile “costi” rimane determinante nella scelta dei fondi passivi. Infatti, il 65% del patrimonio degli indicizzati è allocato in comparti con un Ter (Total expense ratio) dello 0,10% o inferiore. Lo stesso non si può dire delle strategie attive, per le quali il costo è solo una delle variabili prese in considerazione. Gli investitori appaiono disponibili a pagare commissioni più elevate se il manager è di comprovata esperienza. Gli active funddetengono ancora la fetta più grande del patrimonio complessivo negli Stati Uniti (3.725 miliardi di dollari), anche se la loro quota si sta restringendo (2.253 miliardi sono in mano a quelli indicizzati).

Fonte : MorningStar

Ecco perché il «Qe» funziona, ma non come negli Usa

download«Il problema del Qe è che funziona nella pratica, ma non nella teoria». Forse ha ragione Bernanke, ex presidente della Fed: se si ascoltano i teorici l’efficacia di questo «bazooka» monetario sembra sempre incerta, ma in pratica un effetto positivo c’è. O forse hanno ragione i tanti economisti che mostrano scetticismo verso la versione europea del «quantitative easing»: secondo un sondaggio condotto da Rbs, solo il 4% degli intervistati ritiene che il «bazooka» di Draghi riuscirà a risollevare sia l’inflazione sia l’economia europea.

La domanda, in attesa che Mario Draghi prenda oggi il microfono, è proprio questa: il «quantitative easing» funzionerà? Hanno ragione Bernanke o gli scettici? La risposta giusta è probabilmente quella che sta nel mezzo: alcuni effetti benefici ci saranno (in parte si sono già sentiti), ma forse non tanti come negli Usa. Ecco perché.

I benefici del bazooka
Con il «Quantitative easing» la banca centrale fa una cosa semplicissima: stampa moneta e con i soldi “nuovi” compra sul mercato finanziario titoli di Stato (o di altro tipo). Il primo effetto di questa manovra è sul cambio: più si stampa moneta, infatti, più la valuta si deprezza. Questo effetto in Europa c’è in gran parte già stato, perché il mercato si è mosso in anticipo sulla Bce: l’euro dallo scorso giugno ha infatti perso il 16% sul dollaro e il 7,8% sulle valute dei 19 maggiori partner commerciali dell’Europa. La svalutazione offre un indubbio sostegno all’export Ue. Anche per un Paese come l’Italia, il cui Pil è prodotto per il 30% proprio dalle esportazioni e che ha un importante settore turistico.

L’altro effetto positivo, in parte già registrato perché il mercato finanziario si è mosso d’anticipo, è sui tassi d’interesse. Se la Bce compra titoli di Stato, è ovvio che questi possono pagare interessi sempre più bassi. Proprio in attesa del «bazooka» molti titoli di Stato europei hanno addirittura schiacciato i rendimenti sotto zero: calcola Bofa Merrill Lynch che in Europa siano in negativo titoli per 1.200 miliardi di euro. Anche i BTp italiani hanno i rendimenti ai minimi storici. Possibile che ora i loro tassi risalgano un po’ (come accadde negli Usa), ma il beneficio per gli Stati è – e resta – indubbio. Purtroppo è in gran parte annullato, in termini reali, dalla bassa inflazione, ma il «Qe» ha proprio l’obiettivo di farla risalire.

Se i si ridimensionano i titoli di Stato, l’effetto è di far calare sui mercati finanziari anche i rendimenti delle altre obbligazioni: quelle bancarie e aziendali. Il beneficio, dunque, arriva anche a loro. E, insieme a tutto questo, si riducono altri tassi d’interesse: qualche giorno fa l’Euribor a un mese è addirittura sceso sotto zero e quello trimestrale (su cui sono indicizzati i mutui di molte persone) è intorno allo zero. Questo dà una mano a chi ha le rate del mutuo da pagare ogni mese e, dunque, all’economia.

I problemi dell’Europa
Se è fuori di dubbio che il «Qe» porti un po’ di vantaggi, è altrettanto indubbio che l’Europa abbia una serie di problematiche che rendono questi benefici molto più blandi che negli Usa. Come sottolineano gli economisti di Hsbc o di Rbs, la «cinghia» di trasmissione della politica monetaria all’economia reale è infatti molto meno efficiente da questa parte dell’oceano. Il motivo è banale: l’economia europea è diversa da quella americana.

Negli Usa ci sono grandi aziende, che si finanziano principalmente (per circa l’80%) sul mercato finanziario: quando la Fed buttava sui mercati enormi quantità di liquidità, dunque, queste imprese avevano un beneficio immediato. Diretto. Da noi dominano invece le piccole e medie imprese, che non si finanziano sui mercati se non marginalmente: l’80-90% del credito lo ricevono dalle banche. Affinché il beneficio del «bazooka» arrivi alle Pmi, dunque, è necessario che le banche riducano i tassi alle imprese e aumentino le erogazioni.

Purtroppo questo, per ora, non sta succedendo. Se da inizio 2014 il rendimento dei BTp decennali è sceso dal 4,09% all’1,76%, i tassi bancari in Italia non sono calati alla stessa velocità: erano al 3,80% (media per tutte le scadenze secondo la Bce) e ora sono al 3,48%. Questo perché le banche sono da un lato zavorrate da sempre più pesanti requisiti patrimoniali (imposti dalla stessa Bce) e dall’altro sono appesantite da 181 miliardi di crediti in sofferenza. Ma il nodo principale è un altro: dall’inizio della crisi in Italia è sparito credito per 100 miliardi di euro. Difficile che questo gap venga colmato in fretta, date le condizioni precarie delle banche e dell’economia.

L’altro problema è che in Europa il «quantitative easing» rischia di restare l’unica misura espansiva. Gli Stati Uniti, mentre stampavano moneta, mettevano mano anche al portafoglio statale: il deficit federale è infatti passato dal 2,8% di fine 2007 al 12,4% del 2009. Insomma: lo sforzo della Fed è stato affiancato da uno analogo del Governo. In Europa, invece, i bilanci statali si muovono nella direzione opposta, stretti nei vincoli di Bruxelles. Anche il piano Junker sugli investimenti, che dovrebbe affiancare il «bazooka» di Draghi, sembra più fumo che arrosto.

Tutto questo rischia di rendere il nostro «bazooka» meno efficace di quello usato da Bernanke negli Stati Uniti.

Fonte : Il Sole 24 Ore

Borse, Zurigo -15% in due giorni. Euro ai minimi da 11 anni sul dollaro e sotto la parità con il franco. Lo spread crolla a 126

grafico-borsa-madrid-epa-telefoto-kHX--258x258@IlSole24Ore-WebÈ ancora alta la tensione sui mercati all’indomani della mossa a sorpresa con cui la Banca nazionale svizzera ha sganciato il franco dal cambio fisso con l’euro. In una giornata dall’andamento particolarmente volatile, le Borse europee terminano comunque in rialzo (+2,18% per Milano) con il Dax di Francoforte che tocca anche un nuovo massimo storico. In attesa delle mosse espansive della Bce, che gli operatori vedono avvicinarsi sempre di più, precipitano i rendimenti dei titoli di Stato: il BTp decennale crolla all’1,67% (1,72% per i terminali Reuters, che da oggi utilizzano un nuovo benchmark con scadenza marzo 2015) per uno spread sul Bund a 126 punti base. A picco anche l’euro, scivolato ai minimi da oltre 11 anni sotto 1,15 dollari (euro/dollaro e convertitore di valuta).

Negativi i rendimenti del titolo decennale elvetico
Continua a scendere la Borsa di Zurigo, che oggi ha perso il 6% dopo il -8,6% di ieri, per un crollo che in due giorni ha sfiorato il 15 per cento. Un effetto però in parte mitigato dall’apprezzamento del franco svizzero, che ha costretto l’euro sotto la parità (0,98). Da segnalare anche la discesa in territorio negativo del tasso sui titoli di Stato decennali elvetici: un effetto collegato anche alla decisione della Bns di tagliare i tassi a breve a -0,75%. È la prima volta che il rendimento di un decennale scende al di sotto dello zero in un Paese con un’economia sviluppata. L’oro, di riflesso, ha registrato i massimi da 4 mesi a 1.270 dollari l’oncia (segui le quotazioni in diretta).

Occhi puntati sull’inflazione europea in chiave Bce
Mentre restano ancora da valutare in pieno gli effetti dirompenti provocati dall’apprezzamento del franco svizzero, il mercato è tornato oggi a fare i conti con le attese sulle future mosse della Banca centrale europea (Bce). I dati definitivi sui prezzi al consumo di dicembre nell’Eurozona, la cui dinamica è cruciale per la decisione che il board di Francoforte si troverà a prendere giovedì prossimo 22 gennaio, hanno confermato il calo (-0,2% tendenziale) evidenziato nelle cifre preliminari. Anche in Germania si è assistito a un rallentamento (+0,1%). Le aspettative per il lancio di un piano di acquisto di titoli di Stato dell’area euro su scala massiccia si sono del resto fatte ancora più pressanti dopo la mossa a sorpresa sul cambio operata da Berna.

Nei guai diversi broker sui cambi
Giornata di dati sull’inflazione pure negli Stati Uniti, dove i prezzi al consumo sono scesi a dicembre dello 0,4% rispetto al mese precedente (+0,8% annuo) e dove la produzione industriale è scesa dello 0,1%. Goldman Sachs ha pubblicato i dati sul quarto trimestre 2014 che evidenziano un calo degli utili dovuto alla frenata dei ricavi da trading, ma che sono sostanzialmente migliori delle attese. Primi contraccolpi nel frattempo per i broker sui cambi per via della tempesta legata al franco svizzero: le perdite significative dei clienti di Fxcm peseranno per circa 225 milioni di dollari sui bilanci del gruppo Usa, che crolla a Wall Street (-92%): in suo aiuto potrebbe arrivare Jefferies con un’iniezione da 200 milioni di dollari. Ancora peggio è andata alla britannica Alpari (sponsor della squadra di calcio del West Ham), costretta a chiedere il fallimento.

Coeuré: giovedì prossimo valuteremo l’ammontare del Qe
Intanto Benoit Coeuré, il membro francese che siede nel Consiglio direttivo dell’Eurotower è tornato stamani sul tema «quantitative easing» parlando ad alcuni quotidiani europei. Specificamente riguardo all’incontro di giovedì prossimo, Coeuré ha detto: «Prenderemo in considerazione le esperienze Usa e britanniche per valutare l’ammontare delle
obbligazioni da acquistare in modo da ristabilire sul mercato la fiducia sul fatto che l’inflazione torni a un livello vicino e sotto il 2%». Qualsiasi programma di
“quantitative easing”, ha poi aggiunto il francese, «deve essere grande per essere efficace».

Fonte : Il Sole 24 Ore

Il petrolio, la materia prima che fa girare il mondo e «ballare» i mercati

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La scorsa estate per acquistare un barile di petrolio servivano 115 dollari. Oggi, nonostante nel frattempo il dollaro si sia apprezzato sulle principali valute globali, ce ne vogliono 45. Il calo del petrolio è indubbiamente il market mover dei mercati degli ultimi mesi. E’ frutto di una sorta di guerra fredda tra i Paesi Opec (guidati dall’Arabia Saudita) e Stati Uniti (che nel frattempo sono divenuti forti produttori).
Dal 2006, la produzione americana di petrolio è quasi raddoppiata, passando da 5 milioni di barili di petrolio equivalente (Boe) agli attuali 9 milioni, superando anche le attese più ottimistiche. L’Arabia insiste nel voler mantenere alta la produzione, il che sta facendo scendere il prezzo e sta costringendo molte società statunitensi specializzate nello shale oil a chiudere i battenti. Secondo il principe saudita Alwaleed bin Talal: «Sono sicuro che non vedremo più prezzi a 100 dollari al barile». Insomma, le tensioni sul prezzo del barile sembrano destinate a durare.

Fonte : Il Sole 24 Ore